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A Vicenza due famiglie su tre hanno subito le conseguenze del disastro BPVi. Ma tutto e tutti sono fermi, come per la Fondazione Roi

Di Citizen Writers Sabato 24 Settembre 2016 alle 15:14 | 0 commenti

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Tra le tante domande che la vicenda Banca Popolare di Vicenza pone a tutti noi, ce n'è una per la quale è veramente difficile trovare una risposta. Oltre 118.000 soci hanno visto crollare quasi totalmente il valore delle proprie azioni; tra questi, i più danneggiati sono stati quelli che hanno acquistato il titolo ai valori massimi tra i 40 e i 62,50 euro, vale a dire quei soci arrivati per ultimi, che non hanno potuto beneficiare dei dividendi degli anni passati. Se vogliamo ancora restringere il campo, dobbiamo pensare alle decine di migliaia di pensionati, lavoratori dipendenti, professionisti e piccoli imprenditori che hanno affidato al capitale della Banca tutti i risparmi di una vita. Parliamo di famiglie senza specifica competenza finanziaria, con una mentalità assai lontana dalla propensione al rischio che è tipica di operatori finanziari e possessori di capitali ingenti.

Persone che hanno avviato il rapporto con la Popolare vicentina prima come risparmiatori, titolari di un libretto o di un conto corrente, e che successivamente si sono affidati ai consigli di funzionari e dirigenti (in gran parte in buona fede) con cui avevano stretto un rapporto fiduciario totale, come si fa con il medico di famiglia.

Fatta questa premessa, la domanda è: come mai queste decine di migliaia di "azionisti" tacciono? Certo, ogni tanto ci sono dichiarazioni di rappresentanti delle associazioni, ci sono lamenti e piccole manifestazioni, richieste accorate affinché qualcuno (il Governo?) trovi una soluzione. Ma, considerando che a Vicenza due famiglie su tre hanno subito le conseguenze del disastro, e molte di queste sono travolte da un vero e proprio dramma avendo perso in gran parte, se non completamente, il proprio risparmio, non si assiste ad una mobilitazione di massa affinché si faccia giustizia.

Se un fatto del genere fosse accaduto negli Stati Uniti, paese che non amiamo spesso assumere come modello, assisteremmo ad una class action, vale a dire ad un'azione collettiva verso i responsabili del danno. E ci sarebbe certo un giudice ad occuparsene a tempo pieno, in modo da raggiungere celermente un risultato concreto, essendo fuori discussione che un caso come quello di cui parliamo possa concludersi con una prescrizione. Prescrizione che, nel caso vicentino, non è affatto da escludere.

Ho l'impressione che alla domanda iniziale ci siano varie possibili risposte. La prima è che un certo numero di piccoli azionisti non si sia ancora reso conto che quei soldi persi nessuno li farà ritornare volontariamente nelle loro tasche. C'è una parte dell'azionariato popolare che probabilmente non aveva la minima idea di cosa fosse un'azione e non conosceva la differenza tra un deposito bancario e l'adesione al capitale di rischio. Forse c'è in costoro l'idea che i titoli nelle loro mani alla fine torneranno ai valori originari, perché qualcuno provvederà. Poi c'è una quota di azionisti talmente scioccati che non ha nemmeno l'energia per combattere. Hanno perso le speranze, si affidano al destino e non vogliono investire nemmeno un euro in un'azione giudiziaria o in un impegno di pressione politica. Infine, certamente ci sono anche coloro che da un lato hanno perso ma dall'altro anno avuto negli anni passati la possibilità di beneficiare di ingenti vantaggi (per valutare questo, sarebbe veramente utile capire chi e a quali condizioni ha ricevuto soldi dalla Banca e qual è la composizione delle sofferenze!).

Motivazioni diverse, anche in relazione alla specifica situazione di ciascuno, ma comunque ragioni che impediscono l'organizzazione di una vera azione di massa che chieda ciò che è sacrosanto:

a) una decisa e rapida azione giudiziaria (cosa che non si vede affatto);

b) un progetto politico e imprenditoriale che rilanci la Banca nel territorio, sfruttando le potenzialità che certamente ci sono, impedendo che soggetti stranieri se la mangino in un boccone ora che il suo valore è precipitato vergognosamente ad un livello assurdo (un capitale con un'azione a oltre 62 euro era certamente irrealistico, ma altrettanto irrealistico è l'attuale valore a 10 centesimi).

C'è forse anche un bel po' di "vicentinità" in questo atteggiamento rassegnato?
Forse sì anche osservando il destino della Fondazione Roi, della quale probabilmente gran parte dei nostri concittadini nemmeno conosceva l'esistenza. Ma anche qui: perché pochi si sono mobilitati per chiedere chiarezza sulla gestione di questa istituzione benefica? A differenza delle intricate vicende finanziarie della Banca, la questione della Fondazione del marchese Giuseppe Roi è semplice: un gentiluomo del passato creò la Fondazione Onlus (organizzazione di utilità sociale senza scopo di lucro) con un notevole patrimonio; le affidò il compito preciso di investire a favore dei musei vicentini e diede al vertice della Banca Popolare il ruolo di individuare persone autorevoli ed oneste per un consiglio di amministrazione competente in fatto di cultura e di musei. In realtà, dopo la morte del fondatore marchese Roi: la presidenza della Banca ha assunto direttamente il ruolo di amministratore della Fondazione; in poco tempo ha investito 29 milioni di euro sottoscrivendo le azioni della Popolare anche alla quotazione massima, e portando una Onlus a diventare il quinto azionista della Popolare; ha di conseguenza perso quasi tutta la liquidità rendendo oggi molto arduo lo svolgimento del compito attribuitole dal fondatore a favore della città.

Cosa ci si poteva aspettare? Almeno una reazione forte della città, delle sue componenti culturali, dell'Amministrazione comunale in primis, che ha anche un membro di fatto di diritto nel Cda della Onlus e che vede oggi sfumare le possibilità di sostegno ai suoi programmi in tema di musei cittadini. Invece: poche dichiarazioni generiche ma nessun atto concreto per cambiare i membri del Cda e per chiedere anche in questo caso chiarezza e giustizia sull'incauta gestione del recente passato.


di Ubaldo Alifuoco


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