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Alcune riflessioni di fine anno sulle condizioni del lavoro nel nostro paese

Di Giorgio Langella Domenica 25 Dicembre 2016 alle 08:54 | 0 commenti

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Siamo arrivati a fine anno e qualche considerazione sulle condizioni del lavoro nel nostro paese è, penso, doverosa. Ridotti gli incentivi regalati alle imprese sotto forma di decontribuzioni (cosa ben diversa da investimenti per l'occupazione), sono subito crollate le assunzioni con contratti di lavoro "stabili", quelli a "tutele crescenti" che non tutelano affatto né i lavoratori né il lavoro dal momento che la "flessibilità in uscita" (un modo elegante per definire i licenziamenti senza giusta causa) è garantita a "lorpadroni" dal depotenziamento (in pratica l'abolizione) dell'articolo 18. E se anche il lavoro stabile è diventato precario, si è preferito ricorrere a forme di precarietà più palesi come il lavoro a termine o a forme di sfruttamento più brutali come l'uso smodato dei voucher.

I numeri sono là a dimostrarlo.

I dati diffusi dall'INPS e relativi al mese di ottobre di quest'anno ci spiegano come questa precarizzazione del lavoro sia arrivata a livelli abitualmente insostenibili. Da gennaio a ottobre 2016, le nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato in Italia sono 1.043.555 (-32,05% rispetto al 2015 e -5,71% sul 2014). Le nuove assunzioni con contratti a termine sono in crescita del 4,9% rispetto al 2015 e del 7,59 sul 2014. Sul totale delle nuove assunzioni, quelle a tempo indeterminato sono il 21,59%. Le cessazioni a tempo indeterminato (licenziamenti + dimissioni + decessi + risoluzioni consensuali + altre cause) sono 1.308.680 pari al 30,18% del totale delle cessazioni. Per i contratti a tempo indeterminato, i licenziamenti (506.938) sono il 38,74% del totale delle cessazioni e sono cresciuti del 3,45% rispetto al 2015.

I voucher, venduti da gennaio a ottobre 2016, sono 121.506.894 con un aumento di +32,28% rispetto al 2015 e di +121,74% rispetto al 2014.

A ottobre 2016, secondo le stime dell'ISTAT il tasso di disoccupazione è di 11,6% (che corrisonde a 3.000.000 persone), uguale a quello di ottobre 2015.

A questi "disoccupati ufficiali" si sommano gli "sfiduciati" (quei lavoratori, cioè, che pur non avendo lavoro non compaiono nelle liste di disoccupazione) che, daii dati pubblicati nel documento "Employment and social developments in europe - Esde" del 2016, sono il 13% della popolazione attiva (circa 3.300.000 persone). Un raggelante, e triste, primato del nostro paese anche considerando che la media europea degli "sfiduciati" è inferiore al 4%.

Sono, quindi, ben più di 6.000.000 le persone che vorrebbero lavorare ma sono senza lavoro (disoccupati + sfiduciati).

E poi ci sono le crisi industriali alle quali non si riesce a trovare soluzione tra arroganza padronale e inadeguatezza governativa.

Da Almaviva alle ex acciaierie Lucchini, dall'Ilva all'Alcoa, dal Mercatone Uno al gruppo Novelli, dalla Selcom agli stabilimenti Vesuvius in Sardegna e Abruzzo, sono decine di migliaia migliaia i più che probabili licenziamenti.

Per non parlare del settore bancario (dalla Banca Popolare di Vicenza a Veneto Banca tanto per fare due nomi) dove sono previsti consistenti tagli di personale.

Da inizio anno, sono oltre 630 i lavoratori morti a causa di infortuni nei luoghi di lavoro. Con i decessi avvenuti sulle strade e in itinere i caduti sul lavoro sono oltre 1330.

Accanto a tutto questo, si registrano le assoluzioni per vari motivi e la sicura prescrizione dei reati per tutti gli imputati in tutti i processi per morti da mesotelioma (amianto) e altre malattie professionali. Dalla sentenza Pirelli a quelle Eternit e Marlane, nessun imprenditore né dirigente viene mai condannato. Per le morti di chi vive del proprio lavoro non c'è nessun responsabile. Mai.

Il risultato è che, nel nostro paese, la povertà assoluta calcolata per il 2015 colpisce 4,6 milioni di individui (il 7,6% della popolazione italiana) con un incremento del 140,61% rispetto a 10 al 2005. E se si contano le persone che vivono sotto la linea considerata di povertà relativa, i poveri in Italia sono 8,3 milioni (il 13,7% della popolazione).

La fonte di questi dati sulla povertà è il dossier "Poveri noi - esclusione sociale e welfare in Italia tra 2005 e 2015" pubblicato dall'associazione Openpolis, dove si può anche leggere: "Ancora più ampio il numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale. In questo caso agli individui a basso reddito vengono sommati coloro che vivono in situazioni di grave deprivazione materiale oppure in famiglie a "bassa intensità di lavoro". Secondo l'Eurostat tra 2005 e 2015 la quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 25,6% al 28,7%. In tutta l'Unione europea, l'Italia ha registrato un peggioramento inferiore solo a quello di Grecia, Spagna e Cipro. Questi numeri evidenziano che, con la crisi, il problema della povertà si è diffuso più di quanto sia riconosciuto nel dibattito pubblico."

Tutti questi dati e i fatti collegati si traducono in disagio reale e sono la dimostrazione che è soprattutto lo sfruttamento di chi vive del proprio lavoro a determinare l'impoverimento generale del paese. Se il paese risulta bloccato non lo è perché non si fa la riforma costituzionale, ma perché non si applica la Costituzione. È perché si dà priorità all'impresa e al profitto piuttosto che ai diritti e al benessere di chi vive del proprio lavoro. Perché lo Stato, governato in nome e per conto del capitalismo trionfante e dell'affarismo più spietato, ha rinunciato di essere protagonista dello sviluppo, abbandonando il ruolo che la Costituzione gli assegna. Perché i beni collettivi sono stati privatizzati, perché non si è vigilato sull'utilità sociale della libera iniziativa economica privata così come previsto dall'articolo 41 della Costituzione. Perché non si è contrastato con il dovuto rigore e con l'espropiazione l'impoverimento del tessuto economico e produttivo strategico del nostro paese.

Ed è proprio questa "assenza dello Stato" a provocare il declino industriale e produttivo, politico e morale del paese. Un degrado nei toni e nei contenuti del dibattito istituzionale e politico, che trionfa proprio nella negazione del conflitto. Conflitto vero che è frutto dell'esistenza di divergenti interessi di classe e non quelle pantomime da avanspettacolo che vedono politicanti mediocri insultarsi a vicenda. L'occupazione delle istituzioni e del governo da parte di comitati d'affari che hanno trasformato i partiti in qualcosa di diametralmente opposto a quanto previsto in Costituzione, è oggi (come da troppi anni) la "questione morale", la vera emergenza democratica che affligge il paese e che Enrico Berlinguer denunciò più di trentacinque anni fa.

Non si può cambiare questo stato di cose continuando a dare priorità al profitto individuale, concedendo incentivi e risparmi alle imprese senza modificare il sistema produttivo e con nessun piano industriale. Nè ci può essere sviluppo cancellando i diritti di chi vive del proprio lavoro.

Cambiare il paese vuol dire combattere lo sfruttamento, ridare centralità ai problemi e ai bisogni di chi vive del proprio lavoro, ridistribuire la ricchezza, pianificare lo sviluppo industriale, combattere le privatizzazioni e contrastare le delocalizzazioni, riprendersi la proprietà sociale (e collettiva) dei settori industriali strategici e dei servizi. In poche parole non basta qualche aggiustamento al sistema, bisogna trasformare il modello di sviluppo odierno in maniera strutturale, dalle radici.


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