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Il Fatto: "Bankitalia, la carriera dell’ispettore delle sviste in Mps e Banca Popolare di Vicenza"

Di Rassegna Stampa Mercoledi 23 Agosto 2017 alle 09:39 | 0 commenti

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Giampaolo Scardone,(nella foto) da due anni direttore generale della Carim (Cassa di Risparmio di Rimini), è un banchiere molto apprezzato. Nel 2016 ha preso 505 mila euro per occuparsi di una banca con attivi patrimoniali 280 volte inferiori a quelli di Unicredit. Guadagna più del presidente della Bce Mario Draghi, più del governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, il doppio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Essendo la Carim da anni in crisi nera, tanto che è in corso un oneroso salvataggio "di sistema" a beneficio del gruppo francese Crédit Agricole, lo stipendio del 61enne Scardone dev'essere sintomo di una professionalità irrinunciabile. Ha fatto l'ispettore alla Banca d'Italia per 35 anni fino all'1 luglio 2013, quando è stato assunto a Rimini come vicedirettore generale.

Ha fatto l'ispettore alla Banca d'Italia per 35 anni fino all'1 luglio 2013, quando è stato assunto a Rimini come vicedirettore generale. Ha svolto in carriera una cinquantina di ispezioni, ma sono le ultime due a valere il prezzo del biglietto. Dal 27 settembre 2011 al 9 marzo 2012, ha guidato l'ispezione Bankitalia sulla liquidità del Monte dei Paschi di Siena. Di fronte alla reticenza degli ispezionati, non ha scoperto il derivato Alexandria con cui il boss di Mps Giuseppe Mussari aveva azzoppato la banca per finanziare la disastrosa acquisizione dell'Antonveneta. Il 28 maggio 2012, Scardone ha intrapreso l'ispezione della Banca Popolare di Vicenza. Studiando le gesta del presidente Gianni Zonin per quattro mesi e mezzo, il pur esperto ispettore è stato nuovamente ostacolato dagli ispezionati e non ha potuto scoprire che l'istituto era minato dal cancro del capitale finanziato, in gergo "operazioni baciate". Se n'è accorta la Bce nel 2015, quando il buco si era allargato a oltre un miliardo e la Popolare Vicenza era spacciata.
Il caso Scardone illumina la singolare capacità degli ispettori di Bankitalia di farsi sistematicamente gabbare dai banchieri. Toccherà alla Commissione parlamentare d'inchiesta sciogliere il dilemma: lo schema "guardie disarmate e ladri furbi", a cui allude la Banca d'Italia con denunce per ostacolo alla vigilanza alle procure di mezza Italia, serve a coprire tacite intese tra banche e Vigilanza? Andrà verificata un'ipotesi: le banche, incoraggiate dalla stessa Banca d'Italia, fanno i numeri a colori negli anni di boom della finanza facile (2002-2007); quando la crisi presenta il conto, la vigilanza, in nome della stabilità, chiude un occhio sulle irregolarità e sollecita i banchieri in difficoltà a rattoppare il patrimonio anche vendendo dosi da cavallo di obbligazioni subordinate ai piccoli risparmiatori; e comunque a rinviare i problemi affidandosi a Santa Ripresa. Solo che la ripresa, attesa per il 2011-2012, non è arrivata. E oggi nelle procure e nei tribunali si recita sempre lo stesso copione: gli ispettori giurano di essere stati ingannati da banchieri felloni, gli imputati giurano e spergiurano che la Vigilanza sapeva tutto.
Il 2 dicembre 2013, pochi mesi dopo aver lasciato Bankitalia per la Carim, Scardone è chiamato a testimoniare al processo contro Mussari. La vicenda è complicata. Ci sono due operazioni, legate all'acquisto di titoli di Stato italiani per miliardi di euro, fatte lo stesso giorno e con coincidenze inequivocabili: la Consob sospetta che si tratti di un derivato con la Nomura (la celebre operazione Alexandria) e chiede alla Banca d'Italia di approfondire, perché se è un derivato (Cds) contiene perdite implicite che possono mettere a tappeto la banca. Scardone non ha dubbi, e ritiene che "l'equiparazione nella sostanza, piuttosto che nella forma, a un Cds era parsa l'unica soluzione plausibile". A formalizzare che le due operazioni erano unite in un unico strumento, appunto un Cds o derivato, era il mandate agreement, contratto tra Mps e Nomura che però Mussari aveva secretato e che fu trovato nella cassaforte dell'ex direttore generale Antonio Vigni un anno dopo l'ispezione di Scardone. Mussari è stato condannato a tre anni e mezzo per aver celato a Scardone, con il mandate agreement, la perdite incorporate nelle due operazioni. Mussari l'ostacolo alla vigilanza l'ha sicuramente commesso. L'ispettore si fa ostacolare. Pur avendo capito che si trattava di un derivato spiega in tribunale: "Guardi, quello che mancava e che abbiamo provato a ottenere era una prova provata che le due operazioni andassero insieme". Se avesse avuto la prova provata, Scardone avrebbe chiesto a Mps di registrare a bilancio le perdite dell'operazione, che invece venivano spalmate fino al 2034. Ma, dice Scardone al tribunale di Siena, in mancanza del mandate agreement è una cosa "che non ci siamo sentiti di contestare perché oggettivamente era fondata su valutazioni di tipo esperienziale", e "non c'erano i presupposti di oggettività".
L'ispezione di Scardone si svolge nel 2011, nelle settimane cruciali della caduta di Berlusconi e della nascita del governo Monti, dell'insediamento di Mario Draghi alla Bce e della complicata scelta del suo successore alla Banca d'Italia. Chissà come sarebbe cambiata la storia se fosse esplosa la bomba Montepaschi, che invece è deflagrata quindici mesi dopo, solo quando sul Fatto Marco Lillo ha rivelato il mandate agreement.
A Vicenza invece Scardone non si è accorto che la banca di Zonin si ricapitalizzava prestando ai soci i soldi per sottoscrivere il capitale. Sentito dalla Guardia di Finanza il 16 luglio 2015, quando l'ispezione Bce aveva finalmente scoperchiato tutto, l'ormai ex ispettore è stato chiaro: "Durante l'ispezione non abbiamo accertato l'esistenza di un simile fenomeno come pratica diffusa e ricorrente". Risentito il 3 febbraio 2016 a proposito delle "lettere di riacquisto", l'impegno della banca di ricomprare in breve termine le azioni sottoscritte da importanti clienti, Scardone ha specificato: "Escludo che esponenti della Popolare Vicenza con cui si è relazionato il gruppo ispettivo [ne] abbiano comunicato durante l'ispezione 2012 l'esistenza". E ha aggiunto che quel tipo di operazioni hanno un tale rilievo "che necessariamente la banca avrebbe dovuto farne comunicazione nell'ispezione". Ma solo un matto che commette l'irregolarità per salvare la banca si autodenuncia alla Banca d'Italia. Soprattutto però, solo un matto finanzia così un quinto del capitale dalla banca sperando che la Vigilanza non se ne accorga.
A questa storia manca un pezzo, come suggerisce la reazione dei dirigenti della Popolare di Vicenza messi sotto accusa. L'ex vicedirettore generale Paolo Marin ha detto di aver consegnato al team di Scardone "una lista - che io e i miei collaboratori abbiamo a più riprese discusso con loro - dei principali soggetti affidati", cioè i dossier creditizi dei 30 maggiori clienti, nei quali si potevano leggere "operazioni baciate per 234 milioni".
Gli inquirenti ritengono che durante l'ispezione le "baciate" ammontassero a 280 milioni, per balzare a fine 2012 a 545 milioni. Scardone e i suoi, pur avendo setacciato 367 pratiche di fido per 3,8 miliardi, non hanno "accertato" niente.
Dopo queste due ispezioni non del tutto trionfali, Scardone ha coronato la carriera di ispettore di grandi banche con la direzione di una piccola banca. Neppure nella trincea operativa ha avuto molta fortuna, a parte lo stipendio. La Carim era stata commissariata nel 2010 per gravi irregolarità e conti scassati. I due commissari designati dalla Banca d'Italia, Piernicola Carollo e Riccardo Sora, si sono trovati indagati insieme agli ex amministratori della banca, per aver ricomprato da alcuni soci azioni per circa 10 milioni di euro, "a un prezzo illecitamente maggiorato", subito prima e subito dopo il commissariamento. Carollo e Sora sono stati archiviati nel 2015 (dopo che Sora era stato spedito dal governatore Visco a commissariare Banca Etruria) grazie a una lettera della stessa Banca d'Italia che spiegava ai magistrati come i commissari "possano, nell'immediatezza dell'avvio della procedura, dar seguito a delibere già assunte dagli organi societari laddove valutino che decisioni di segno contrario potrebbero ingenerare allarme nella clientela, con possibili conseguenti repentini peggioramenti del profilo di liquidità". Insomma, i due hanno salvato la Carim da un "procurato allarme" e da una "corsa agli sportelli". Lo stesso fatto per i commissari "non costituisce reato", per gli altri sì.
Né Carollo e Sora, né in seguito Scardone hanno però salvato la Carim dal precipizio. Dopo oltre due anni di commissariamento, il 30 settembre 2012 la Carim si è trovata con le sofferenze (crediti inesigibili) cresciute dal 3 al 9 per cento degli impieghi e la raccolta diretta scesa da 3,8 a 3 miliardi. Quattro anni dopo, nel 2016, la raccolta diretta è a quota a 2,4 miliardi: come effetto dell'intervento della Banca d'Italia è scomparso oltre un terzo dei depositi. Le sofferenze lorde sono balzate dal 9 al 20 per cento. Al momento del commissariamento Carim aveva 392 milioni di patrimonio netto, sceso all'uscita dal commissariamento a 259: al 31 dicembre 2016 è precipitato a 161, in tutto fa meno 60 per cento. È l'ennesimo caso in cui l'intervento della Banca d'Italia non ha portato bene a una banca.
Gli uomini di Visco sono andati l'anno scorso a ispezionare nuovamente la Carim, cioè il loro ex collega Scardone. E, secondo il festoso comunicato della banca, sono rimasti contenti: l'ispezione, conclusa "senza l'applicazione di sanzioni", "conferma la piena continuità e operatività della Banca, vitale e radicata sul territorio, con importanti prospettive di evoluzione industriale". E pensare che ai mai contenti l'unico dato positivo sembra lo stipendio di Scardone: una banca che perde un terzo della raccolta più che nel territorio sembrerebbe radicata nella fossa.

di  Carlo Di Foggia e Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano


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