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Il prezzo del petrolio cala e fa crollare le Borse: perché?

Di Giulia Biasia Sabato 23 Gennaio 2016 alle 10:47 | 0 commenti

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Tanti analizzano il motivo delle cadute delle Borse, fenomeni ultimamente più ricorrennti e pesanti delle risalite e se ne preoccupano in molti di più; non solo chi investe in azioni ma anche tutti i consumatori le cui sorti (per capacità di spesa, prezzi, eccetera) sono legate, comunque, non solo all'economia ma, sempre di più, alla finanza e alle sue scommesse. Le cause dei crolli, in sequenza, preoccupanti delle Borse sono molteplici, ma una gran parte della responsabilità ce l'ha anche il petrolio, dopo che il suo prezzo si è assestato inorno ai 30 dollari a barile (per avere un'idea del crollo, l'11 luglio del 2008, prima della crisi finanziaria, i future sui vari tipi di oro nero superavano i 147,27 dollari al barile).

Per capire più a fondo come c'entri il petrolio, facciamo, intanto, una distinzione tra produttori di petrolio per estrazione dai classici pozzi (il cui "cartello" principe, l'OPEC, Organization of the Petroleum Exporting Countries, è dominato dai sauditi) e gli shaler, i nuovi produttori di petrolio e gas intrappolati da strati di scisti, shale. I primi sono avvantaggiati dal fatto che l'estrazione comporta minori costi rispetto alle tecniche utilizzate in primis dagli americani per spaccare e lavorare delle particolari rocce da cui vengono estratti gas e petrolio. I costi di produzione per gli shaler, dunque, sono maggiori rispetto a quelli dell'Opec e sarebbero remunerativi se i prezzi non scendessero sotto i 50 dollari al barile. Oggi con l’economia mondiale anemica e con la frenata cinese la crescita della domanda di petrolio ristagna e i suoi prezzi scendono. La batosta arriva dal calo del prezzo del petrolio, spinto dai sauditi del'Opec soprattutto contro gli shaler, che ai consumatori può fare molto comodo, ma non di certo a chi dal petrolio dovrebbe trarre profitto. Succede, quindi, che i produttori con le nuove tecnologie ma anche quelli tradizionali guadagnino sempre meno, anzi che perdano sempre di più, abbiano bisogno di soldi per finanziare il loro lavoro, chiedano prestiti alle banche (malconce anche loro) e si indebitino. Il segno di tale crisi, soprattutto riguardante i produttori americani, è riportato dalla International Energy Agency (IEA) che afferma che nel 2016 la produzione degli shaler sarà in calo di 600.000 barili al giorno partendo dai 57,6 milioni giornalieri del 2015 dei paesi extra Opec.

«I danni collaterali - scrive su Il Fatto Quotidiano Fabio Scacciavillani, capo economista del Fondo monetario dell'Oman -  li subiscono i mercati finanziari, tuttora fragili, e il settore bancario, ancora semi-tramortito dalla crisi del 2008. Gli indici delle maggiori Borse tendono a essere correlati con i prezzi del petrolio. Entrambi sono trainati dall'economia globale. Ma c'è un meccanismo di trasmissione più diretto: i petrodollari vengono immessi in circolo immediatamente attraverso i grandi asset manager internazionali. Quando le esportazioni petrolifere languono e i Paesi produttori sono costretti a vendere gli attivi accumulati, l'effetto è pesante. Parte del tracollo in Borsa è attribuibile al mancato sostegno di questi fondi».

Come per ogni azione, c'è chi ne paga le conseguenze. E questa è appunto la borsa, che viene trascinata sempre più giù anche dal calo stesso del prezzo dei barili. Aumentarne il prezzo potrebbe essere una soluzione? Difficile. Perché se il costo del petrolio aumentasse, i consumatori ne comprerebbero sicuramente meno, facendo diminuire la domanda e i produttori si troverebbero di nuovo a fare i conti con pochi incassi, come, d'altronde, stanno facendo tutt'ora.
Sembra un cane che morde la sua stessa coda.


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