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L’assenza delle classi dirigenti nella vicenda delle popolari venete: il “giallo” a Zaia, Variati & c. nel commento di Daniele Marini

Di Rassegna Stampa Sabato 27 Maggio 2017 alle 10:54 | 0 commenti

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La tragica vicenda delle popolari venete è un duplice fallimento. Il primo è quello simbolico rappresentato da una parte significativa delle classi dirigenti e imprenditoriali venete, caratterizzate da un sistema di relazioni vischioso e incapace di trasparenza e meritocrazia. La presunta diversità da un centro (Roma) distante e sordo, l'idea di imprenditorialità e di autonomia laboriosa, la ostentata lontananza dalla politica: icone costruite negli anni dello sviluppo economico, velocemente sbiadite di fronte a una gestione discutibile e ai diversi scandali emersi. La reputazione e la fiducia sedimentate negli anni si sono volatilizzate nel breve volgere di qualche settimana. E ricostruirle richiederà molto tempo e molte energie.

A quel fallimento, si è sommato quello materiale ed economico che ha già coinvolto famiglie e imprese, soprattutto ma non solo del Nordest. Oggi però, lo spettro di un game over per le popolari venete si sta facendo più prossimo e con esso le conseguenze sarebbero infauste per l'intero territorio. Il sistema produttivo, dopo gli anni più difficili, sta realizzando un processo di trasformazione i cui esiti positivi cominciano a intravedersi. Il fallimento de facto - di uno o ambedue gli istituti - costituirebbe un vero e proprio trauma di sistema, diversamente da come sembrano pensare a Bruxelles. Nessuno ovviamente auspica un simile finale, tuttavia viene da domandarsi in che modo le classi dirigenti stiano affrontando questa situazione. Qual è il grado di consapevolezza? Cosa hanno insegnato simili vicende? In che modo sono mutati i comportamenti reali degli attori? Se escludiamo la presa di posizione della presidente degli industriali trevigiani, Piovesana, lo scorso anno, qualche analisi apparsa sui quotidiani e, da ultimo, l'intervento di Possamai su questo quotidiano, sembra che nulla sia concretamente mutato. Da un lato, le riflessioni - anche spinose - vengono rigettate come inopportune, quasi con fastidio: sembrano cadere nel vuoto, incapaci di generare un dibattito, una presa di consapevolezza. Le responsabilità stanno sempre altrove (Roma, il Governo, l'Ue, la Banca d'Italia, la Bce) o negli altri (anche se ex sodali). Si preferisce, una volta di più, operare carsicamente, senza dare nell'occhio o sollevare troppi vespai. Alla trasparenza e all'evidenza, si opta per l'opacità, il sottovoce. Dall'altro lato, le classi dirigenti sembrano prigioniere di una coazione a ripetere, ancorate a schemi di azione del passato, incapaci una volta di più di dotarsi di di un obiettivo condiviso: tutti contro tutti. Parafrasando Bauman, si potrebbe dire che il sistema della rappresentanza nordestino è "liquido", incapace di coagularsi. O, come ha detto qualche mese fa l'ex presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca, il Nordest appare come una società "sparpagliata": effervescente, ricca, dinamica, ma incapace di realizzare progettualità condivise. Certo, qualche segnale di una prima inversione di tendenza fortunatamente esiste: il progetto delle Università del Nordest sui Competence Center, l'aggregazione delle categorie in #Arsenale2022 (non tutte, appunto) e poco altro. Ma anche fra queste entità le invettive polemiche non sono mancate. Insomma, la vicenda delle popolari costituisce una cartina di tornasole per le attuali classi dirigenti che oggi si presentano ancora (e decisamente più di un tempo) "dis-perse": radunate per piccoli gruppi, in competizione fra loro, sperdute sul territorio, incapaci così di far avvertire il loro "peso" nei luoghi decisionali. Non che non fosse così anche indietro nel tempo, ma esisteva una cornice di senso comune, un'idea condivisa sul futuro che consentiva alle diversità di non disperdersi. Il problema non sono le diversità, ma l'assenza di una visione congiunta. Ora, poiché il tempo volge alla fine, sul tema delle popolari serve uno scatto di reni univoco per scongiurare il peggio. Ma l'insegnamento della crisi delle popolari dovrebbe obbligare le classi dirigenti (e non solo loro) a rivisitare una progettualità per il futuro del territorio, a identificare i valori di riferimento che costituiscono gli assi strategici dell'azione dei diversi attori: per costruire una nuova cornice di senso che sia una "organicità condivisa".

di Daniele Marini da Il Mattino di Padova


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