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Atlante e la "fortuna" della Banca Popolare di Vicenza: senza la crisi di Unicredit non sarebbe nato, paga Federico Ghizzoni

Di Gianfri Bogart Mercoledi 25 Maggio 2016 alle 07:18 | 0 commenti

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«L'uscita. Il capo della seconda banca italiana rimette il suo mandato. Pesa la maldestra operazione veneta, ma anche le difficoltà del gruppo. Scelte sbagliate ereditate dall'espansione dell'era profumo». In quessto sommario dell'interessante articolo di Stefano Feltri e Salvatore Gaziano sul Il Fatto Quotidiano è sintetizzata l'ipotesi sommessamente avanzata su questo mezzo: il Fondo Atlante è stato messo su, in fretta e furia, dal sistema Italia (leggasi Governo e vertici finanziari) non per salvare la Banca Popolare di Vicenza, che altrimenti sarebbe stata lasciata al suo destino o a una fine peggiore dell'attuale, ma per evitare che nel gorgo finisse Unicredit, che ha usato la "leva" del possibile default (ora lo chiamano "risoluzione") della BPVi per convincere chi di dovere al grande passo.

Senza il "tappo" del fondo al buco nero dell'Istituto condotto alla crisi da Zonin & c. e non rimesso in carreggiata dalle promesse mediatiche senza costrutto di Francesco Iorio e del Cda, non a caso per metà suo e per metà del re del vino ma in perfetta simbiosi, Unicredit si sarebbe avvitata e il suo dramma sarebbem, stato tragedia di sistema. Leggete, please.

 

Dopo il disastro di Pop Vicenza, Unicredit caccia l’ad Ghizzoni

di Stefano Feltri e Salvatore Gaziano, da Il Fatto Quotidiano

È un grande classico del sistema bancario italiano: si caccia l'amministratore delegato ma non si spiega perché. Da ieri sera Federico Ghizzoni inizia la fine della sua carriera come capo di Unicredit, la più grande banca basata in Italia, perché "sono maturate le condizioni per un avvicendamento al vertice del gruppo". Che non vuole dire molto, ma il comunicato alla fine del consiglio di amministrazione informa anche che Ghizzoni "ha quindi dato la propria disponibilità a definire, insieme al presidente, una ipotesi di accordo per la risoluzione del rapporto". Era successo anche nel 2010, quando i soci di Unicredit licenziarono il banchiere che aveva trasformato la banca in un grande gruppo internazionale, Alessandro Profumo.

 

Motivazioni del siluramento mai esplicitate (ma subito si mise in moto il solito sottobosco di poteri opachi all'italiana per la successione che all'epoca ruotava intorno a Luigi Bisignani). Profumo se andò con una buonuscita di 40 milioni di euro, difficile che Ghizzoni riesca a strappare altrettanto. Sono tempi diversi.

E proprio nella tempistica si può trovare la spiegazione dell'uscita di Ghizzoni. Certo, la banca deve lanciare un aumento di capitale tra i 5 e 7 miliardi - come ha scritto da tempo il Fatto - ma la crisi è precipitata nell'ultimo mese. Cioè da quando Unicredit ha fatto di tutto per evitare di dover sottoscrivere l'aumento di capitale della Popolare di Vicenza per 1,5 miliardi. Colpa di un contratto di pre-garanzia che scattava se nessuno voleva partecipare a rafforzare l'istituto già provato dalle sofferenze e dalla svalutazione delle sue azioni, rifilate ai soci a prezzi gonfiati per anni. Anche per evitare che la crisi di Vicenza arrivasse a indebolire Unicredit, il governo ha costruito in gran fretta il fondo Atlante (privato ma con la partecipazione della Cassa depositi e prestiti) che si è fatto carico della banca vicentina.

Dopo aver rischiato di trascinare Unicredit nel gorgo di Vicenza, Ghizzoni ha ribadito più volte di voler cercare le risorse per rafforzare la banca all'interno, vendendo qualche pezzo e facendo risparmi. I grandi aumenti di capitale, di solito, vengono più facili ad amministratori appena insediati che possono vantarsi di fare pulizia piuttosto che a top manager di lungo corso che sarebbero così costretti ad ammettere il fallimento della propria gestione.

Nel 2010 a Ghizzoni era infatti stata affidata la missione di rafforzare il posizionamento di Unicredit come banca leader in Europa e in particolare verso i Paesi dell'Est, considerati a maggior potenziale di crescita. L'obiettivo non è stato centrato. Il banchiere piacentino ha sicuramente ereditato da Profumo una situazione problematica dopo un decennio caratterizzato da acquisizioni in 22 paesi. Dal giorno della sua nomina il comparto bancario europeo non ha fatto certo faville (-20%) e nemmeno quello italiano (-50%) ma il titolo Unicredit ha perso i tre quarti del proprio valore (-75%). Oggi la seconda banca italiana capitalizza circa 18,5 miliardi di euro in Borsa, ma dallo scoppio della crisi Lehman i suoi azionisti hanno già dovuto aprire il portafoglio tre volte (3 miliardi nel 2008, 4 nel 2009 e 7,5 nel 2011) per un totale di 14,5 miliardi di euro. Normale che la situazione sia tesa sia fra i piccoli che tra i grandi soci esteri.

Per troppo tempo è stato detto che tutto era sotto controllo. Il mercato ha invece bocciato il piano industriale presentato a novembre (che aveva già tagliato le stime di utile netto al 2018 da 6,6 miliardi a 5,3 miliardi) e ora Unicredit ha l'handicap di presentarsi con indici di solidità appena sopra l'asticella posta dalla Banca centrale europea. Il patrimonio Cet1 - che esprime il rapporto fra capitale e attivi, cioè il cuscinetto di sicurezza per potenziali perdite - è al 10,85%, contro un minimo di 10,50. Un po' poco per l'unica italiana tra le 30 banche considerate "sistemiche" dal Financial stability board. Una pesante responsabilità per un istituto che fatica a far crescere la redditività, rincorsa soprattutto col taglio dei costi del personale grazie agli incentivi all'esodo (-50 mila dipendenti dal 2008).

L'ora dell'aumento di capitale

Bisogna rafforzare l'istituto chiedendo 5-7 miliardi al mercato, ora potrebbe arrivare Alberto Nagel: l'ipotesi di fusione con Mediobanca
L'ad è riuscito a realizzare la "banca unica", con la fusione di sette controllate nel retail. La crisi ha però cambiato gli scenari, gli assetti regolatori sono diventati più stringenti e gli errori di percorso sono stati numerosi, alcuni clamorosi. Ultima goccia è stata appunto l'operazione su Pop Vicenza. E le ricette trapelate per scongiurare l'aumento di capitale e rafforzare il patrimonio indicano confusione: la cessione di un'altra quota di Fineco Bank (che dal collocamento della prima tranche nel 2004 ha raddoppiato il valore in Borsa), una delle migliori banche digitali europee o la vendita delle partecipazioni nelle controllate in Polonia e Turchia. Che strategia è quella di far cassa cedendo i rami migliori? La joint venture con Santander per Pioneer, leader del risparmio gestito dal gruppo, è al palo da un anno e il dossier rischia di essere congelato con l'uscita dell'ad (ma la banca smentisce). La cessione in Ucraina di Ukrsotsbank ad Alfa Group è sospesa, la ristrutturazione in Austria non ha portato i benefici annunciati e si parla della cessione delle attività di Unicredit nella gestione dei pagamenti, pur di aumentare di qualche decimo di punto (15 punti base) il Cet1.

Per tornare a far crescere il Cet1 le strade non sono molte per Unicredit quindi poiché la strada delle cessioni significa svendere le partecipazioni più facilmente liquidabili (e buone) mentre varare un aumento di capitale significa andare incontro a una fuga probabile di molti investitori (soprattutto piccoli) che in questi anni hanno già pagato un prezzo altissimo. Problemi del successore di Ghizzoni: tra i nomi circola quello dell'ad di Mediobanca Alberto Nagel, che potrebbe fondere la storica banca d'affari con il gruppo internazionale di piazza Cordusio. Operazione che salverebbe Mediobanca dall'angolo in cui sta finendo con la crisi del capitalismo di relazione.

Dopo il disastro di Pop Vicenza, Unicredit caccia l'ad Ghizzoni
L'uscita. Il capo della seconda banca italiana rimette il suo mandato. Pesa la maldestra operazione veneta, ma anche le difficoltà del gruppo. Scelte sbagliate ereditate dall'espansione dell'era profumo

di Stefano Feltri e Salvatore Gaziano
Cambio al vertice - L'amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, sta per lasciare la guida
È un grande classico del sistema bancario italiano: si caccia l'amministratore delegato ma non si spiega perché. Da ieri sera Federico Ghizzoni inizia la fine della sua carriera come capo di Unicredit, la più grande banca basata in Italia, perché "sono maturate le condizioni per un avvicendamento al vertice del gruppo". Che non vuole dire molto, ma il comunicato alla fine del consiglio di amministrazione informa anche che Ghizzoni "ha quindi dato la propria disponibilità a definire, insieme al presidente, una ipotesi di accordo per la risoluzione del rapporto". Era successo anche nel 2010, quando i soci di Unicredit licenziarono il banchiere che aveva trasformato la banca in un grande gruppo internazionale, Alessandro Profumo: motivazioni del siluramento mai esplicitate (ma subito si mise in moto il solito sottobosco di poteri opachi all'italiana per la successione che all'epoca ruotava intorno a Luigi Bisignani). Profumo se andò con una buonuscita di 40 milioni di euro, difficile che Ghizzoni riesca a strappare altrettanto. Sono tempi diversi.

E proprio nella tempistica si può trovare la spiegazione dell'uscita di Ghizzoni. Certo, la banca deve lanciare un aumento di capitale tra i 5 e 7 miliardi - come ha scritto da tempo il Fatto - ma la crisi è precipitata nell'ultimo mese. Cioè da quando Unicredit ha fatto di tutto per evitare di dover sottoscrivere l'aumento di capitale della Popolare di Vicenza per 1,5 miliardi. Colpa di un contratto di pre-garanzia che scattava se nessuno voleva partecipare a rafforzare l'istituto già provato dalle sofferenze e dalla svalutazione delle sue azioni, rifilate ai soci a prezzi gonfiati per anni. Anche per evitare che la crisi di Vicenza arrivasse a indebolire Unicredit, il governo ha costruito in gran fretta il fondo Atlante (privato ma con la partecipazione della Cassa depositi e prestiti) che si è fatto carico della banca vicentina.

Dopo aver rischiato di trascinare Unicredit nel gorgo di Vicenza, Ghizzoni ha ribadito più volte di voler cercare le risorse per rafforzare la banca all'interno, vendendo qualche pezzo e facendo risparmi. I grandi aumenti di capitale, di solito, vengono più facili ad amministratori appena insediati che possono vantarsi di fare pulizia piuttosto che a top manager di lungo corso che sarebbero così costretti ad ammettere il fallimento della propria gestione.

18 mila

gli esuberi previsti dal piano industriale di Ghizzoni (bocciato dal mercato): le stime di utile netto tagliate da 6,6 miliardi a 5,3 al 2018
Nel 2010 a Ghizzoni era infatti stata affidata la missione di rafforzare il posizionamento di Unicredit come banca leader in Europa e in particolare verso i Paesi dell'Est, considerati a maggior potenziale di crescita. L'obiettivo non è stato centrato. Il banchiere piacentino ha sicuramente ereditato da Profumo una situazione problematica dopo un decennio caratterizzato da acquisizioni in 22 paesi. Dal giorno della sua nomina il comparto bancario europeo non ha fatto certo faville (-20%) e nemmeno quello italiano (-50%) ma il titolo Unicredit ha perso i tre quarti del proprio valore (-75%). Oggi la seconda banca italiana capitalizza circa 18,5 miliardi di euro in Borsa, ma dallo scoppio della crisi Lehman i suoi azionisti hanno già dovuto aprire il portafoglio tre volte (3 miliardi nel 2008, 4 nel 2009 e 7,5 nel 2011) per un totale di 14,5 miliardi di euro. Normale che la situazione sia tesa sia fra i piccoli che tra i grandi soci esteri.

Per troppo tempo è stato detto che tutto era sotto controllo. Il mercato ha invece bocciato il piano industriale presentato a novembre (che aveva già tagliato le stime di utile netto al 2018 da 6,6 miliardi a 5,3 miliardi) e ora Unicredit ha l'handicap di presentarsi con indici di solidità appena sopra l'asticella posta dalla Banca centrale europea. Il patrimonio Cet1 - che esprime il rapporto fra capitale e attivi, cioè il cuscinetto di sicurezza per potenziali perdite - è al 10,85%, contro un minimo di 10,50. Un po' poco per l'unica italiana tra le 30 banche considerate "sistemiche" dal Financial stability board. Una pesante responsabilità per un istituto che fatica a far crescere la redditività, rincorsa soprattutto col taglio dei costi del personale grazie agli incentivi all'esodo (-50 mila dipendenti dal 2008).

L'ora dell'aumento di capitale

Bisogna rafforzare l'istituto chiedendo 5-7 miliardi al mercato, ora potrebbe arrivare Alberto Nagel: l'ipotesi di fusione con Mediobanca
L'ad è riuscito a realizzare la "banca unica", con la fusione di sette controllate nel retail. La crisi ha però cambiato gli scenari, gli assetti regolatori sono diventati più stringenti e gli errori di percorso sono stati numerosi, alcuni clamorosi. Ultima goccia è stata appunto l'operazione su Pop Vicenza. E le ricette trapelate per scongiurare l'aumento di capitale e rafforzare il patrimonio indicano confusione: la cessione di un'altra quota di Fineco Bank (che dal collocamento della prima tranche nel 2004 ha raddoppiato il valore in Borsa), una delle migliori banche digitali europee o la vendita delle partecipazioni nelle controllate in Polonia e Turchia. Che strategia è quella di far cassa cedendo i rami migliori? La joint venture con Santander per Pioneer, leader del risparmio gestito dal gruppo, è al palo da un anno e il dossier rischia di essere congelato con l'uscita dell'ad (ma la banca smentisce). La cessione in Ucraina di Ukrsotsbank ad Alfa Group è sospesa, la ristrutturazione in Austria non ha portato i benefici annunciati e si parla della cessione delle attività di Unicredit nella gestione dei pagamenti, pur di aumentare di qualche decimo di punto (15 punti base) il Cet1.

Per tornare a far crescere il Cet1 le strade non sono molte per Unicredit quindi poiché la strada delle cessioni significa svendere le partecipazioni più facilmente liquidabili (e buone) mentre varare un aumento di capitale significa andare incontro a una fuga probabile di molti investitori (soprattutto piccoli) che in questi anni hanno già pagato un prezzo altissimo. Problemi del successore di Ghizzoni: tra i nomi circola quello dell'ad di Mediobanca Alberto Nagel, che potrebbe fondere la storica banca d'affari con il gruppo internazionale di piazza Cordusio. Operazione che salverebbe Mediobanca dall'angolo in cui sta finendo con la crisi del capitalismo di relazione.


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